Riceviamo e pubblichiamo:
Vi siete mai chiesti perché gli uomini amano tanto la vita? Per le passeggiate al tramonto? Per il sesso? O per i piaceri della tavola? No, niente di tutto questo. Quello che ci fa amare così tanto la nostra esistenza è la caducità delle cose, il loro essere sempre nuove in un’apparente staticità.
Dal primo vagito all’ultimo respiro viviamo un’evoluzione lenta e inesorabile che ci permette di non essere mai uguali al giorno prima. Pensate che noia sarebbe svegliarsi al mattino e sentirsi identici alla sera precedente.
Soltanto il tifo calcistico sfugge a questo progresso ineluttabile. Andare allo stadio è un rito laico per milioni di italiani ed è l’unico evento della vita che si ripete identico dai sei agli ottant’anni di età.
Generalmente si viene folgorati da bambini per colpa del papà o del fratello maggiore, da lì in poi la passione crea una sorta di dipendenza cronica verso la propria squadra del cuore che si fortifica con le gioie e si ingrandisce con le delusioni.
Tanti anni fa la passione colpì anche me.
Avevo nove anni quando assistetti per la prima volta ad una partita di calcio dal vivo. Da quel momento il senso di appartenenza verso i colori della mia città crebbe fino a trasformarsi in un amore viscerale. Senza nemmeno rendermene conto ero diventato anch’io un tifoso e da allora le mie domeniche non furono più le stesse.
Nel giorno del Signore, dopo aver svolto i miei servizi da chierichetto, correvo subito a casa e con papà alla guida della centoventisette di famiglia raggiungevo lo stadio in città bassa.
Nel pre partita amavo ascoltare i racconti dei vicini di posto che, tra il tanfo delle sigarette e il profumo dei bruscolini, parlavano delle epiche sfide del passato.
«Papà tu c’eri quella domenica?» chiedevo curioso tirandogli la giacca. La tensione del momento non gli permetteva di rispondere, dovevo aver pazienza fino a sera.
Dopo cena mi prendeva in disparte e mi raccontava di quando, da bambino, si accodava agli adulti per entrare gratis alla partita. Lo stadio era in pieno centro in città alta, il terreno di gioco era in terra battuta, i settori popolari non avevano gradinate. Gli aneddoti più coinvolgenti erano quelli dei derby col Pescara, racconti che alle mie orecchie di scolaretto sembravano leggende.
Immaginavo suoni, odori e grida e pensavo che io non avrei mai vissuto emozioni simili sulla mia pelle. Ci separavano ben quattro categorie, i cugini giocavano in serie A e noi teatini eravamo sprofondati nei campionati interregionali.
Una sera gli dissi: «Prima di morire vorrei vedere un derby con i miei occhi, non mi interessa il risultato ma soltanto vivere le sensazioni di cui parli.»
Avevo capito che quella partita non era uguale a tutte le altre e gli occhi lucidi di mio padre lo confermavano: «Non si tratta soltanto di rivalità sportiva - aggiungeva accarezzandomi la testa - è la sfida tra due città agli antipodi. Sai che Chieti è stata fondata prima di Roma e Pescara è nata sessant’anni fa? La storia e le tradizioni non si comprano al mercato, saremo sempre due entità distinte anche se ci separano soltanto quindici chilometri.»
E dopo avermi rimboccato le coperte mi baciava la fronte.
Passarono tre lustri e le delusioni sportive rafforzarono il mio legame con la maglia a strisce neroverdi.
Cambiai fidanzata, assolsi il servizio militare e trovai lavoro ma il derby restava sempre una chimera. Con l’avvento del nuovo millennio accadde però l’imponderabile: il Chieti, guidato in campo dal futuro campione del mondo Fabio Grosso, dominò il campionato e fu promosso in serie C1.
I cugini, dopo aver messo insieme un record negativo dopo l’altro, chiusero mestamente ultimi in serie B. Dopo ventisette anni dall’ultima sfida sarebbe tornato il derby!
L’estate non passava mai, le ferie erano diventate noiose e la salsedine più seccante del solito.
In città non si parlava d’altro e si attendeva con ansia la composizione del calendario che fu varato in un torrido pomeriggio di luglio. La data da segnare con il circoletto rosso era il 9 settembre 2001, la sfida si sarebbe disputata a Chieti.
Da quel momento qualcosa in me cambiò, mancavano cinquanta giorni alla partita e l’ansia cominciava a farsi sentire. Le ore sembravano settimane, i giorni mesi, mi chiedevo spesso se avrei retto la tensione dell’attesa. Tra picchi di nervosismo e potenti batticuori arrivò così il 2 settembre, giorno dell’inizio del campionato.
Nonostante i buoni auspici derivanti dal mercato estivo il Chieti esordì con una sconfitta pesante nel risultato e nel gioco e le poche speranze di far bene la domenica successiva si affievolirono come un moccolo al vento.
Cominciava la settimana decisiva, la più dura da superare. Di giorno faticavo a divincolarmi dagli sfottò dei colleghi pescaresi, di sera cercavo di ingannare i pensieri realizzando uno stendardo da esporre sugli spalti.
L’ansia però sapeva sempre come avere la meglio: dormivo poco, non avevo fame, parlavo solo se strettamente necessario.
Il sabato sera giunse con il passo di un bradipo claudicante. Non avevo voglia di distrarmi e sentivo la necessità di condividere il mio stato d’animo. Uscii a fare una passeggiata, incontrai Cesare e Simone e mi unii a loro. Corso Marrucino brulicava di ragazzi con la sciarpa neroverde al collo che parlavano della partita e si davano coraggio con vigorose pacche sulle spalle. C’era un’atmosfera stupenda, frizzante, ineguagliabile.
Poco dopo mezzanotte mi avviai verso casa. Nel silenzio della periferia le mie falcate sembravano martellate e al mio passaggio il frinire delle cicale si interrompeva repentino.
Ero solo in camera, l’orologio sulla parete segnava l’una. Il letto sembrava di marmo, mi alzai a prendere un bicchiere d’acqua anche se non avevo sete e frugai nel comodino alla ricerca delle foto della mia infanzia.
Mi stesi di nuovo, i pensieri non mi davano pace, contai non so quante greggi prima di addormentarmi. Aprii gli occhi poco dopo, fuori albeggiava e alzai lievemente le tapparelle per godermi l’aurora. Mi vestii in fretta e furia e andai in montagna. Nella quiete della natura a duemila metri di altezza riuscii a scorgere all’orizzonte le isole Tremiti senza stupirmi. Guardai l’orologio, mi sedetti e lessi il giornale senza comprendere una parola. Tornai ad ammirare il paesaggio, la mia testa era ingolfata e l’attimo dopo sembrava vuota. Morsi le nocche della mano sinistra, fissai l’impronta dei canini sulla pelle e mi lamentai del dolore, poi sbirciai di nuovo l’orologio.
«Si può essere così nervosi per una stupida partita di calcio?» Me lo chiesi decine di volte senza mai trovare una risposta plausibile. Il senso di appartenenza e la passione non erano sufficienti per giustificare i miei comportamenti nevrotici, c’era qualcosa di indecifrabile che mi spediva il cuore in gola e centrifugava le emozioni. Era magnifico non capire cosa fosse.
Rientrai in macchina e guidai fino a casa con difficoltà. Avevo lo stomaco chiuso come una pista da sci a ferragosto, indossai sciarpa, cappello e maglietta da stadio e corsi a prendere gli amici.
A tre ore dall’inizio della sfida ero già sotto la curva e da lontano scorsi l’arrivo dei primi esagitati tifosi ospiti. La polizia fu costretta a sparare lacrimogeni per calmare le acque e il fumo acre rese meno piacevole l’attesa.
I cancelli aprirono alle 14 in punto, come mia abitudine presi posto sui gradoni in alto. Era una splendida giornata di sole e il vento leggero mitigava a fatica i miei bollenti spiriti. La curva era tutto un brulicare di preparativi: si distribuivano fumogeni, bandierine e cartoncini, tutto doveva essere perfetto per l’inizio della gara.
Le squadre entrarono in campo per il riscaldamento. Alessandro, il capitano, guidò i compagni sotto la curva. Lo salutai da lontano, ricambiò con un cenno, siamo amici ma quell’espressione così contrita sul suo volto non l’avevo mai vista prima.
Cominciai a realizzare che quel sogno da bambino stava per diventare realtà e capii di essere stato bugiardo con mio padre quando dissi che il risultato non mi interessava. Io, Alessandro e gli altri diecimila presenti volevamo soltanto vincere.
L’atmosfera era elettrizzante e i decibel dei cori aumentavano sensibilmente, così come quelli dei fischi destinati alla tifoseria avversaria. Pensai per un attimo agli amici che non potevano essere lì al mio fianco e mi convinsi che avrei dovuto urlare anche per loro.
Alle 15.58 l’arbitro sbucò dal sottopassaggio seguito dai due capitani e le gradinate diedero vita a uno spettacolo di colori mai visto prima. Anche il mio stendardo fece la sua bella figura.
In quel momento mi sentivo il ragazzo più fortunato al mondo, vivere quelle emozioni era un privilegio unico.
La nebbia dei fumogeni si diradò a fatica e il derby cominciò con qualche minuto di ritardo. Ero troppo teso per seguire con attenzione le fasi di gioco e concentrai le mie energie su quanto accadeva in curva.
Il primo tempo terminò a reti bianche, il Chieti era riuscito a tenere testa al quotato avversario senza soffrire.
Il secondo tempo scivolò via sulla falsariga del primo, tutto faceva pensare ad un pareggio quando a dieci minuti dalla fine accadde l’inopinabile. Da un calcio d’angolo avversario Mimmo recuperò palla e servì Maurizio che la controllò con i tacchetti, resistette ad una carica e gliela restituì.
Mimmo avanzò palla al piede per una ventina di metri e con un esterno destro di rara bellezza e precisione lanciò Paolo, subentrato da poco a un compagno. Il Pescara era sbilanciato e Paolo aveva una prateria davanti a sé, ingranò la quarta, abbassò la testa e corse, corse, Dio santo come corse.
Un difensore lo affiancò senza riuscire a contrarlo, dopo quaranta metri giunse al limite destro dell’area di rigore, alzò la testa ed esplose un diagonale verso l’incrocio dei pali.
La palla sembrava destinata in curva ma si abbassò repentina, baciò la parte interna della traversa e si infilò in rete.
Lo stadio deflagrò, intorno a me tutti si abbracciarono e urlarono come mai avevano fatto prima nella loro vita. Io ero paralizzato e non riuscivo a parlare. Mentre Paolo continuava la corsa e raggiungeva la curva per esultare cedetti a un pianto liberatorio e inconsolabile. Gli amici mi scuotevano, cercavano di condividere l’euforia ma io non riuscivo a gioire.
In un lampo rivissi le carezze di mio padre e mi sentii smarrito, quasi inadeguato ad accogliere tutta quell’emozione.
Dopo un paio di minuti il mio pianto si placò, la voce tornò vigorosa e le braccia forti. C’era ancora da soffrire, inveire e mordersi le dita mentre i cugini attaccavano a testa bassa alla ricerca del pareggio, ma la storia ormai era scritta.
Al triplice fischio un terremoto di grida invase gli spalti e sulle facce tese intorno a me si allargarono sorrisi increduli. Finalmente anch’io avevo la forza di gioire e di abbracciare chiunque, le lacrime di qualche minuto prima erano già chiuse nel cassetto dei ricordi.
Prima di rientrare negli spogliatoi Mimmo, Paolo e tutti i compagni di squadra raggiunsero la curva per raccogliere la meritata ovazione. Alessandro arrivò per ultimo, il suo viso era stravolto dalla fatica ma l’espressione contrita di due ore prima aveva lasciato spazio a un ghigno compiaciuto.
Gli spalti cominciarono a svuotarsi ma io non avevo nessuna intenzione di andare via. Mi sedetti accogliendo la testa tra le mani, chiusi gli occhi e rividi la corsa di Paolo. Sentii impetuoso il boato dopo il gol, mi commossi di nuovo, asciugai le lacrime e cominciai a fissare l’incrocio dei pali dove si era insaccata la sfera.
Riemersi dal ricordo e mi avviai a fatica verso l’uscita senza staccare lo sguardo dal terreno di gioco. Vedevo ancora i calciatori lottare, gli spalti pieni e Paolo che correva.
«È davvero finita? Abbiamo vinto?» mi chiedevo incredulo.
All’arrivo in città alta mi accolse un tripudio di bandiere e il traffico in tilt, le strade erano zeppe di adulti, vecchi e bambini desiderosi di manifestare il loro l’orgoglio di essere teatini.
I festeggiamenti si protrassero per tutta la notte. Al mattino seguente, con sole tre ore di sonno alle spalle, arrivai in ufficio in largo anticipo, mi fermai davanti all’ingresso e attesi l’arrivo dei miei colleghi per potermi far beffe di loro. Vedere quegli sguardi cupi mi ripagò ampiamente dello stress accumulato.
Sono passati vent’anni da quella domenica. Ho assistito ad altri derby, ho cambiato città, ho trovato una compagna e sono diventato padre ma una gioia così grande in un lasso di tempo così piccolo non l’ho più provata. E tutto questo per una stupida partita di calcio.