Cari lettori,
da oggi riparte la nostra rubrica dedicata alle interviste. Per la prima pubblicazione del 2017 abbiamo contattato Cristiano Di Tommaso, protagonista di tre stagioni in maglia neroverde a cavallo tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi degli anni ’90.

Ciao Cristiano e ben ritrovato. Raccontaci com'e scoppiato il tuo amore per il calcio.
Sono sempre stato innamorato del calcio sin da ragazzino, arrivavo sempre per primo agli allenamenti ed andavo via per ultimo, la mia era pura passione anche se non nascondo che era difficoltoso allenarsi tutti i giorni.Sono cresciuto calcisticamente nella Renato Curi, a 16-17 anni sono arrivate le prime proposte di trasferimento anche in cadetteria ma le ho sempre rifiutate perché ero tranquillo così e mai avrei pensato di diventare calciatore professionista. Nonostante la mia tenera età non ero particolarmente amante delle discoteche o della “bella vita” ma piuttosto focalizzato sul calcio.

Il tuo ruolo era quello di interno di centrocampo e/o centrocampista centrale. Hai sempre giocato in quella zona di campo?
Ho iniziato come mediano davanti alla difesa, le mie caratteristiche erano grande corsa e sacrificio, di sovente tatticamente mi occupavo di francobollare una delle punte avversarie. Non avevo paura di nulla e correvo come un ossesso, nel prosieguo della carriera mi è capitato di essere utilizzato anche sulla fascia come esterno o come terzino, ma il mio ruolo principe resta nella mediana.

Dopo la trafila giovanile nella Renato Curi nell’estate 1987 arriva l’opportunità di giocare a Chieti tra i professionisti. Raccontaci com’è andata.
Avevo 18 anni e l’allora presidente della Renato Curi Daniele Ortolano mi disse che c’era l’interessamento del Chieti e di Claudio Garzelli grande direttore sportivo dell’epoca. Se non erro ai tempi il Chieti aveva anche una sorta di collaborazione con la Curi: mi sono detto che poteva essere una buona occasione, ero vicino casa ed era arrivato il momento di provare a fare il salto tra i professionisti.

Che impatto hai avuto con la piazza e con la società? Cosa ti ha sorpreso e cosa invece ti ha deluso?
Non avevo particolari aspettative se non quella di dare il massimo ed imparare il più possibile. Ero un ragazzino alla prima esperienza, armato di ingenuità e di tanta abnegazione, tutto quello che sarebbe arrivato era oro, stare lì ed allenarmi con grandi calciatori significava toccare il cielo con un dito!
Ho cercato di accettare consigli dai più esperti in squadra, all’epoca fino a 25 anni eri considerato ancora un ragazzino tanto che mi toccava portare anche le valigie. Ci ho messo tutto me stesso e sono riuscito a ritagliarmi il mio posto in squadra con enorme soddisfazione.

Il Chieti neopromosso in C2 disputa un buon campionato chiudendo la stagione al 5° posto e portando a casa alcuni “scalpi” eccellenti come la Ternana di Vincenzo D’Amico e Vito Graziani (2-1 il 1 novembre 1987), il Perugia di Fabrizio Ravanelli e Giovanni Pagliari (1-0 il 7 febbraio 1988), senza dimenticare la vittoria 3-0 contro “la bestia nera” frentana il 18 aprile 1988. A quale match resti più legato?
Per me ogni partita è stata una battaglia ed è stata una grandissima soddisfazione disputare un campionato intero da titolare. Alcuni dei miei compagni di squadra fino a qualche mese prima li vedevo solo sulle figurine Panini ed ora erano lì al mio fianco: tante volte a fine allenamento mi fermavo con Carmelo Genovasi per cercare di migliorare i fondamentali tecnici. Lui da grande calciatore di punizioni mi spiegava pazientemente come approcciare il pallone di piatto o di esterno ed io cercavo di apprendere il più possibile, lui e non solo lui in quella squadra erano capaci di cose con i piedi che io non riuscivo a fare nemmeno con le mani! Quegli insegnamenti me li sono portati dietro per tutto il resto della carriera.

 

Quel Chieti aveva un ottimo organico con i vari De Amicis, Fiaschi, Genovasi: chi ricordi con maggiore affetto e chi ti è stato più vicino nel tuo inserimento tra i professionisti?
A quelli già citati da te non posso non aggiungere Stefano Sgherri, Gabriele Consorti e Rossano Di Lello che con la sua esperienza mi ha fatto un po’ da chioccia e con il quale tutt’ora ho degli ottimi rapporti. Era un gruppo fantastico, frutto non del caso ma della sagacia e della competenza di una società all’avanguardia fatta di persone vere e serie come il Dott. Mancaniello, Mario Gaini, l’avvocato Tragnone e Claudio Garzelli capaci di scegliere i calciatori ma soprattutto gli uomini giusti. Ti dico, senza timore di essere smentito, che il dott. Garzelli è stato il miglior dirigente calcistico incontrato nella mia carriera.

Stagione 1988-89, dopo una campagna acquisti sontuosa e l’arrivo tra gli altri di Presicci, Consorti, Baglieri e Torrisi il Chieti punta dritto alla promozione in C1. Dopo aver tenuto sempre un rendimento alto la vittoria in casa con la Ternana del 25 marzo 1989 (1-0 gol di Baglieri) vi diede la convinzione che il sogno potesse diventare realtà?
Non credo che quella partita abbia cambiato la nostra convinzione, noi quel campionato lo avevamo praticamente già vinto, poi probabilmente abbiamo accusato un rilassamento psicologico che ha mandato in fumo quanto di buono fatto nei primi tre quarti di stagione.

Sogno quasi del tutto infranto dalla assurda sconfitta rimediata in casa contro l’Andria il 14 maggio 1989, preceduta dall’introduzione della fantomatica classifica avulsa da parte della FIGC allora presieduta da Antonio Matarrese. Una partita strana, un arbitraggio allucinante, avete avuto la sensazione che ci fosse un disegno superiore?
Sinceramente non ricordo granché dell’andamento della partita e non davo importanza alla dietrologia, da diciottenne non pensavo nemmeno ci potessero essere cose torbide in campo, il mio unico obiettivo era dare il meglio. Quello che posso dire è che tra le pretendenti noi eravamo forse quelli meno blasonati e sicuramente meno tutelati dal punto di vista arbitrale: la Ternana era un lusso per la serie C2 e l’Andria aveva investito una cifra “monstre” per poter vincere quel campionato. Certo, col senno di poi, ripensando anche all’introduzione della classifica avulsa da te citata, si potrebbe pensare a qualcosa di strano.

Se dico Dino Manuzzi e Cesena?
Cosa dire? Una grandissima delusione, una partita dominata in cui abbiamo sbagliato un paio di gol fatti. Personalmente ricordo una grande prestazione in marcatura su Paolo Doto, attaccante delle fere, ma tutta la squadra giocò una grande partita davanti a 20.000 spettatori tra cui c’era, purtroppo per noi, anche Stefano Sgherri squalificato. Dopo 120 minuti arrivarono quei maledetti rigori: lo stress, il caldo, la paura fecero sì che fallissero i nostri migliori tiratori, insomma un’annata maledetta conclusa nel peggiore dei modi.

Cosa vi siete detti prima di scendere in campo e chi ha avuto il coraggio di parlare per primo dopo la partita?
Eravamo molto carichi e sicuri dei nostri mezzi, alla fine ovviamente la delusione, l’amarezza, il rammarico hanno preso il sopravvento ma tutti noi eravamo consci di aver dato il massimo seppur sconvolti e terribilmente dispiaciuti. Credo non potessimo fare di più.

Il tuo rapporto con Pinna e Giammarinaro
Tony Giammarinaro lo incontravo ogni tanto in giro prima di viverlo in maniera assidua a Chieti, so che mi seguiva sin dai tempi della Renato Curi: il classico personaggio vecchio stampo, uomo di carattere e di esperienza che vedeva il calcio a modo suo. Pinna era una persona seria, molto meticoloso e preciso, in quell’ambiente guidato da una società con gli attributi non poteva che esserci uno staff serio che mi ha aiutato tanto ad apprendere e crescere.

Dopo l’esperienza in neroverde sei mesi a Trento e ben tre anni e mezzo ad Arezzo. Come mai hai lasciato Chieti e come ti sei trovato in terra toscana dove probabilmente hai raggiunto il punto più alto della tua carriera?
Dopo la finale di Cesena arrivarono tantissime richieste per me, tanto che decisi di prendere per la prima volta il procuratore, scelta ricaduta su Giovanni Allegrini, persona seria ed affidabile. Tra le varie richieste scelsi Trento, fui l’unico calciatore della società trentina ad essere acquistato in quella sessione di mercato in quanto il resto della rosa erano prestiti, il presidente scommise su di me per farmi maturare e rivendermi a stretto giro. Feci una buona prima parte di stagione, mi infortunai alla caviglia ed andai al Monza dove trovai una rosa di grandissimi giocatori (all’epoca il Monza era legato al Milan) ma un rapporto non semplice con l’allenatore. Decisi così di lasciare la Lombardia e trasferirmi ad Arezzo: in Toscana sono stato benissimo e ho ritrovato un gruppo di uomini molto simile a quello che avevo trovato a Chieti.

Nella stagione 93-94 ritorni a Chieti, un anno orribile concluso con la retrocessione nello spareggio di Lentini contro l’Atletico Leonzio. Cosa salveresti di quella stagione?
Quella era una squadra che aveva le basi per salvarsi senza problemi e magari l’anno successivo con alcuni innesti provare a tentare il salto di categoria, probabilmente le problematiche economiche e la gestione della rosa hanno influito sul fallimento tecnico. Sono tornato a Chieti perché fortemente richiesto dall’allenatore Amedeo Assetta, peccato che il nostro rapporto personale non sia mai decollato e la nostra visione del calcio fosse abbastanza differente. Io avrei visto molto bene una coppia di centrali difensivi composta da Tomei e D’Angelo: ho condiviso questa mia idea con i più esperti del gruppo come Giovanni Pagliari e Mauro Picconi e ho provato anche a parlarne col mister che però aveva la convinzione che Luca D’Angelo fosse a centrocampo quello che era Frank Rijkaard nel Milan di Sacchi. Luca aveva qualità ma certamente non il passo del centrocampista. Ricordo diversi cambi di ruolo per molti giocatori, verso la fine della stagione però, visti i risultati poco soddisfacenti, il mister cercò di rimettere le cose a posto tatticamente ma la scelta si rivelò ahimè tardiva.

Nei primi anni del nuovo millennio hai appeso le scarpette al chiodo. Ccosa ti rimane della tua esperienza nel calcio?
Mi rimane la soddisfazione di aver fatto il mestiere più bello del mondo, quello che mi piaceva fare, ho conosciuto tanta gente e vissuto un ambiente bello ma molto difficile da gestire.Oggi il mondo del calcio è completamente cambiato, non è più un mondo che mi appartiene. Mi fa specie pensare che già ai tempi Claudio Garzelli mi aveva predetto un certo tipo di evoluzione di questo mondo, Claudio era veramente avanti venti anni!
Dopo aver smesso di giocare ho cominciato ad allenare i ragazzini ma i primi allenamenti furono per me delle “bastonate”; mi è capitato di dover richiamare dei ragazzi che durante l’allenamento si sedevano in campo con il cellulare in mano, roba inimmaginabile ai miei tempi! Avevo anche riportato buoni risultati tanto che avrei avuto la possibilità di allenare la rappresentativa  regionale abruzzese ma ho preferito dedicarmi ad altro.

Di cosa ti occupi oggi? Segui ancora il calcio da tifoso e appassionato? 
Certo. Il calcio è la mia passione ed è rimasta tale, ho seguito amaramente le sorti del Chieti ASD e del suo fallimento quasi annunciato.Attualmente gestisco il Vittoria beach stabilimento balneare e ristorante a Francavilla al mare.

Grazie Cristiano per la tua disponibilità ed in bocca al lupo per il futuro.
Grazie a voi ragazzi, è stato un piacere. Un saluto a tutti.

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