TifoChieti ha incontrato l’ex portiere Rossano Di Lello, che molti di voi ricorderanno sul rettangolo verde dell’Angelini nel corso degli anni '80 e '90, prima come calciatore e poi con diversi ruoli da allenatore.

Salve sig. Di Lello e grazie per aver accettato il nostro invito.
Cominciamo col parlare delle sue esperienze giovanili.
Ci parli dei motivi che l’hanno portata a scegliere il ruolo di portiere e del percorso formativo che l’ha portata all’esordio in serie D con l’Angolana nella stagione 1972-73
Sono nato a Chieti e sin da piccolino mi è sempre piaciuto provare a fare il portiere. Ricordo che già a cinque anni mi divertivo a giocare in casa con mio fratello e a parare i suoi tiri. La mia prima squadra giovanile fu il “Marconi” (che poi cambiò nome in Renato Curi dopo la sua sfortunata scomparsa); ricordo che il portiere titolare di quella squadra si trasferì con tutta la famiglia in Venezuela e noi rimanemmo senza estremo difensore. Mio fratello parlò con la dirigenza asserendo che io ero molto bravo in porta, anche se mi aveva visto giocare soltanto con lui. Mi fecero un provino veloce e…così ebbe inizio la mia carriera da portiere.
Passai poi alle giovanili del Pescara dove però non feci mai esordio in serie C o B, ma nella stagione 72-73 esordii da titolare in serie D. 
Seguirono poi otto anni a Francavilla in cui facemmo una scalata straordinaria dalla promozione fino alla serie C1 ed un anno a Macerata in serie C2, nella stagione 1981-82.

Nella sua ultima stagione a Francavilla divideva i pali con un certo Claudio Garzelli.
Esatto. E’ lì che nacque la nostra amicizia, consolidata nel corso dei tanti anni di lavoro condivisi in futuro.

Approdò quindi per la prima volta a Chieti nella stagione 1982-83 dove, sotto la guida di Bruno Pinna, prese subito possesso dei pali neroverdi. Il Chieti, appena retrocesso dalla serie C2, chiuse la stagione in seconda posizione dietro il Cesenatico e a pari merito con la Fermana. Per lei la soddisfazione di aver guidato la miglior difesa del girone (e la terza di tutte le 192 partecipanti a quel campionato di serie D) con soli 14 gol subiti.
Per me fu un piacere venire a Chieti, per motivi non solo calcistici ma anche personali, visto che di lì a breve sarebbe nata mia figlia ed era mio desiderio vivere quell’avvenimento da vicino. Disputammo un buon campionato, fu un grosso vanto avere una difesa così ermetica ed impenetrabile, non solo per merito di mister Pinna che era un ottimo allenatore ma anche per la bravura dei miei compagni di reparto molti dei quali scalarono le categorie giocando anche in C1 o B.
Purtroppo la società aveva grossi problemi economici. Io che per età potevo definirmi uno dei leader di quel gruppo, passavo giornate intere nelle sale comunali a parlare con assessori e sindaco per cercare aiuti che ci permettessero di tenere in piedi la baracca. Ad ogni modo fu un bellissimo campionato, portato a termine da un gruppo serio, cementato ed in cui si viveva in piena armonia.

Dopo la prima esperienza teatina, tre anni in quel di Vasto in cui ricoprì anche il ruolo di allenatore.
Effettivamente mi toccò anche quello. Eravamo partiti per vincere il campionato, parlo della stagione 1983-84. La squadra si barcamenava sempre nelle prime posizioni senza spiccare il volo. Mister Castignani fu esonerato e affidarono a me, in qualità di giocatore più esperto la gestione della squadra. La domenica successiva vincemmo e il mio ruolo temporaneo si prolungò fino alla settimana seguente. Una seconda vittoria, una terza…alla fine non mi tolsero più dalla panchina, vincemmo otto partite di fila, arrivammo primi in campionato e fummo promossi in Interregionale.

Tornò nuovamente a Chieti nella stagione 1986-87 per non lasciare più i colori neroverdi. Al suo arrivo immaginava che Chieti sarebbe stata l’ultima fermata della sua carriera da calciatore?
Visto che avevo ormai 33 anni mi sembrava scontato chiudere la carriera a Chieti.
Ricordo che mi chiamò Claudio Garzelli (che nel frattempo era diventato direttore sportivo di quel Chieti) dicendomi che aveva bisogno di un portiere di esperienza, di un uomo di fiducia che potesse svolgere un ruolo da “chioccia” per i più giovani. Accettai subito di buon grado la proposta.
Ti racconto questo aneddoto: venivo da anni pessimi a Vasto dal punto di vista societario ed economico, tanto che non percepivo quasi mai lo stipendio ed ancora oggi sono creditore di diverse mensilità mai saldate.
A Chieti “San Paganino” era fissato al 10 di ogni mese; io, memore delle problematiche di cui sopra, non andai in società a ritirare lo stipendio, convinto che non mi avessero pagato con puntualità. Ed invece il giorno successivo mi chiamò Claudio e mi disse “Rossano, perché non sei venuto a prendere lo stipendio? Il dott. Mancaniello ci tiene che tutti gli emolumenti siano corrisposti entro il 10 di ogni mese”
Rimasi basito, non credevo alle mie orecchie! Andai di corsa in società a riscuotere, non mi sembrava vero! Aggiungo che all’epoca avevo un negozio di coppe e medaglie a Pescara e quindi riuscivo a legare perfettamente l’aspetto sportivo ed economico della mia vita.
Furono anni indimenticabili.

Portiere di quel Chieti reduce dallo sfortunato spareggio di Latina era Massimo Di Carlo. Come ha vissuto la convivenza con lui? 
In perfetta sintonia. Con me è difficile non andare d’accordo, Massimo al di là di alcune “uscite” caratteriali era ed è un ragazzo molto forte, siamo rimasti in ottimi rapporti


Il Chieti dimostrò sul campo di essere di un’altra categoria e vinse il campionato con più di due mesi di anticipo. Cosa oggi le resta dentro di quella inarrestabile cavalcata?

Sicuramente l’entusiasmo del pubblico. Vedevamo intorno a noi grande partecipazione soprattutto se si pensa che si trattava di un campionato di serie D e che si veniva dallo sfortunato spareggio della stagione precedente.
Ricordo soprattutto nelle ultime gare una partecipazione di pubblico sempre maggiore ed un entusiasmo inarrestabile, sfociato poi con i festeggiamenti finali seguiti alla vittoria contro il Corato all’Angelini che ci diede la matematica certezza della promozione in C2.

Poche presenze in campionato ma tante in Coppa Italia dilettanti.
E’ vero che lei e Massimo Di Carlo vi eravate accordati in modo che,  visto che lui era il titolare in campionato, lei giocasse in coppa,?

Non abbiamo deciso noi personalmente ma abbiamo accettato di buon grado quanto ci era stato proposto dal mister. Orazi ci disse che c’era la volontà di andare avanti in coppa e che quindi avrei avuto possibilità di giocare diverse partite, visto che in campionato il padrone dei pali sarebbe stato Massimo.


In effetti il Chieti fece tanta strada anche in coppa ma, dopo aver eliminato nei quarti il Valdagno e in semifinale il Seregno, si fermò sul più bello in finale a Castel Di Sangro contro l’Avezzano.

Molti ricordano purtroppo un suo intervento poco “convincente” che ci costò la partita nei supplementari. Le chiedo il suo punto di vista su quella maledetta punizione.
Quella punizione l’ho rivista forse cento volte, e sono convinto che non avrei potuto fare di meglio. Fu molto bravo Patané a far passare il pallone di fianco alla barriera; ricordo un bel tiro carico d’effetto, un interno collo deciso che cercai di intercettare andando in estensione il più possibile ma non riuscii ad arrivarci.
Qualche minuto prima salvai il risultato in una azione in cui tre giocatori dell’Avezzano penetrarono indisturbati in area, ma com’è ovvio che sia, pochi lo ricordano. La verità è che dopo la vittoria del campionato non ci siamo più allenati in maniera determinata: avevamo le gambe molli, eravamo vuoti di motivazioni, forse perché inconsciamente pensavamo che sarebbe stato facile battere una compagine di categoria inferiore. Invece i marsicani tirarono fuori una grande prestazione, misero in campo tutta la ferocia calcistica necessaria per incontrare una squadra di categoria superiore, oltretutto in un derby da loro molto sentito.
Ricordo che in campo ci chiamavamo tra di noi per darci indicazioni, ma nessuno rispondeva all’altro. Eravamo macchinosi, prevedibili, lenti…ecco il vero motivo di quella sconfitta,oltretutto arrivata con la nostra superiorità numerica.
Fossimo stati quelli di un mesetto prima non ci sarebbe stata storia.

L’anno successivo ritrovò Bruno Pinna in panchina con Tony Giammarinaro a fare da supervisore. Il suo ruolo rimase sempre quello di secondo alle spalle di Venturelli con  Di Carlo fuori rosa. Che stagione è stata?
Non ho un bellissimo ricordo di quella stagione. Ero molto legato a Bruno Pinna ma con la presenza di Giammarinaro alle sue spalle mi ero convinto che mister Pinna non sarebbe durato molto. Ed in effetti andò così, perché a dicembre fu esonerato e Tony prese possesso della panchina. Ricordo che ci chiesero di lì in avanti di fare 22 punti per poter ambire a posizioni di vertice. Quella era una buona squadra ma di medio lignaggio, e chiudemmo il campionato in quinta posizione.
Inoltre ci fu un problema con Venturelli che nelle ultime partite, per motivi personali, non riusciva a garantire prestazioni all’altezza sia in allenamento che in partita. E così Giammarinaro mi fece disputare le ultime giornate giocando da titolare.

Abbandonato il calcio giocato, nella stagione 1989-90 cominciò la sua carriera da allenatore.
Durante la mia ultima stagione da calciatore, quella del 1988-89 culminata con il terzo posto, fui parte integrante della squadra solo per i primi mesi. Claudio Garzelli mi aveva paventato l’ipotesi di creare una squadra primavera; il Chieti all’epoca aveva una formazione “berretti” di tutto rispetto e la società non voleva depauperare quella ricchezza. Claudio mi presentò un’occasione che non potevo rifiutare, visto che la mia passione più grande era allenare i ragazzi. Presi il patentito necessario ed iniziai a girare sui campi di provincia per scovare giocatori potenzialmente utili alla causa neroverde. Visto che eravamo all’esordio assoluto mi fu semplicemente chiesto di arrivare “ultimo ma non troppo staccato dalle altre”. Facemmo un campionato splendido, chiudendo al settimo posto in classifica con dei risultati insperati, come il pareggio in casa della Roma campione d’Italia in carica.

Nel 90-91 passò sulla panchina della prima squadra a coadiuvare il lavoro dell’indimenticato ed indimenticabile Ezio Volpi. Come mai scelse di lasciare la primavera?
A dir la verità non decisi io, ma la società. Terminato il campionato e visti gli ottimi risultati ottenuti ero convintissimo di continuare ad allenare i ragazzi della primavera.
Il Chieti aveva scelto come allenatore della prima squadra Francesco Oddo, c’era già l’accordo completo tra lui e Mancaniello, mancava soltanto la firma.
Oddo, che aveva ottime conoscenze di preparazione atletica, riteneva superflua la figura di Amedeo Assetta al suo fianco (che all’epoca era preparatore atletico del Chieti) e chiese alla società di chiamarmi al suo fianco come collaboratore diretto in prima squadra.
Claudio Garzelli mi chiamò, mi raccontò il tutto e, nonostante sapesse di darmi una coltellata perché non volevo assolutamente abbandonare la mia “creatura”, mi disse “Tu sei un uomo della società, di esperienza, dovresti lasciare la primavera e andare in prima squadra, i ragazzi li affidiamo ad Amedeo Assetta”. Ero un dipendente della società, non potevo fare diversamente. Parlai al telefono con un Amedeo Assetta  molto scontento della scelta perché non amava cimentarsi con il settore giovanile, ma convenimmo che bisognava accettare le scelte societarie.
Da un lato come detto mi dispiaceva molto lasciare i ragazzi, ma dall’altro ero certo che l’esperienza da allenatore in seconda mi avrebbe dato molto.
E qui arrivò il colpo di scena: Oddo venne contattato dall’Avellino, all’epoca in serie B, e gli venne proposto un buon contratto. Francesco, visto che non voleva essere scorretto nei confronti del Chieti, andò da Mancaniello facendogli presente la cosa.
Il patron, da signore qual è, lo lasciò andare ad Avellino e la sua scelta per la panchina neroverde virò su Ezio Volpi.
Volpi arrivò quindi quando l’annuncio di Assetta allenatore della primavera e Di Lello allenatore in seconda era già stato dato, e sarebbe stato inopportuno tornare indietro nelle decisioni, e fu così che diventai collaboratore diretto di Ezio.
Volpi curava la preparazione atletica da solo, ricordo diverse diatribe tra lui ed Assetta e col senno di poi penso che se avessero lavorato fianco a fianco non avrebbero convissuto a lungo.
Per me fu un’esperienza zeppa di soddisfazioni; Ezio mi gratificava molto, anche se io passavo poco tempo con la squadra visto che mi spediva spesso in giro a spiare le avversarie.
Ricordo questionari chilometrici che lui stesso preparava e mi dava da riempire nelle mie trasferte da osservatore. Era maniacale, preciso, voleva sapere tutto di tutti sui calciatori avversari, anche il numero di scarpe calzate o se indossavano anelli e collanine (…ride). Portavo con me il mio fido registratore grazie al quale appuntavo le impressioni a caldo e grazie all’aiuto di mia moglie che spesso mi seguiva nelle trasferte, trasferivo quelle impressioni sui questionari. Assistevo alle partite quasi in trance cercando di scovare ogni segreto dei 22 in campo.
Quando la domenica la squadra riusciva ad imbrigliare gli avversari e a vincere, il mister non mancava mai di ringraziarmi pubblicamente per il mio lavoro.
Mi occupavo anche della preparazione dei portieri e in quella stagione ebbi il privilegio di allenare Dario Marigo con cui sono entrato subito in sintonia. Grande portiere, grande professionista, perfezionista  e stakanovista del lavoro.
Ricordo che dopo un litigio a Cosenza ci lasciammo male; ci siamo rivisti dopo un anno in occasione di un torneo di vecchie glorie. Lui mi è venuto incontro, mi ha abbracciato e mi ha detto “Ora faccio il preparatore dei portieri anch’io ed ai ragazzi faccio fare tutto quello che mi hai insegnato!”

Com’è stato lavorare a fianco del Signor Ezio Volpi?
Fantastico. Come tutti gli uomini aveva dei difetti, che venivano però completamente scalzati dai pregi. Un grande allenatore, era avanti anni luce: utilizzava un tipo di preparazione assolutamente fuori dai tempi, facendo lavorare molto i ragazzi sulle corte distanze. Per me era una novità e tante volte gli presentavo le mie remore a riguardo ma lui ribatteva con fare sicuro “Rossano, stai tranquillo, vedrai che ho ragione io” ed era sempre così! I ragazzi erano lucidi e pimpanti; ricordo che nella stagione della promozione, a parte un paio di piccoli contrattempi per Cavezzi e Picconi, non si infortunò nessuno. L’anno successivo invece, come ricorderai, la sfortuna si abbatté sul Chieti e perdemmo Feola, D’Eustacchio, Consorti e Pallanch per infortuni al crociato. Volpi era ossessivo dal punta di vista tattico, tutto doveva girare alla perfezione; a volte veniva fuori la sua permalosità perché mal sopportava le critiche ma nella globalità non posso che definirlo una persona squisita, così come la moglie che ho avuto il piacere di conoscere.

La storia si ripete e, come accadde nel 1987, il Chieti vinse a mani basse il campionato conquistando la promozione in C1 con quattro giornate di anticipo. Quali furono i segreti di quella stagione?
La mossa vincente dal punto di vista tecnico fu portare a Chieti due ragazzi come Cavezzi e Picconi, che Volpi conosceva dai tempi della Lodigiani e volle fortemente.
Diventarono i punti fermi del centrocampo. E poi c’era Stefano Sgherri che all’inizio non era molto ben visto da Volpi per i movimenti macchinosi dovuti alla sua stazza ma come ricorderete tutti si dimostrò devastante. Altra carta vincente fu sicuramente Mimmo Presicci che a discapito del suo fisico esile metteva in campo una determinazione fuori dal comune. Ma il vero asso nella manica fu secondo me il modo di ragionare di Volpi quando si trattava di far fronte a qualche infortunio. Lui non pensava nemmeno per un istante a snaturare la squadra o a mutarne atteggiamento tattico spostando, che so, un centrale difensivo a fare il terzino o un centrocampista centrale sulla fascia. Il suo dogma era “andiamo a pescare dalla primavera” Fu così, ad esempio, che ebbe il coraggio di far esordire Sabatelli dal primo minuto senza che prima avesse mai giocato in serie C. Io e Claudio Garzelli ci divertivamo tra di noi per gioco a fare le formazioni prima che le facesse il mister, cercando di anticiparne le scelte. Sistematicamente le sue erano differenti da quelle ipotizzate da me e Claudio, e sistematicamente mister Volpi aveva ragione!

 

Altri due campionati sulla panchina neroverde (culminati con due salvezze sofferte) la vedono ancora fedele scudiero di Volpi nel 91-92 e di Gianni Balugani nel 92-93.
Perché decise di lasciare il Chieti?

Purtroppo la società era in piena crisi economica. Io vivevo di calcio e avevo bisogno di portare lo stipendio a casa. Vedevo il patron in grandi difficoltà, e vivevo la cosa in prima persona visto che in quel periodo mi occupavo in parte anche di segretariato. Vedevo spesso arrivare vari investitori che portavano in sede assegni destinati ad aiutare economicamente la società. Si decise di non investire più sul settore giovanile e quello per me fu un campanello d’allarme molto serio. Chiamai Garzelli e gli chiesi “Quante possibilità ho di continuare a prendere regolarmente lo stipendio qui a Chieti?” e Claudio in tutta onestà mi rispose “Vicine allo zero”:
Così realizzai che la mia avventura in neroverde stava volgendo al capolinea.
Decisi così di andar via, chiusi la mia attività di coppe e trofei e con i soldi messi via negli anni spesi nel calcio ho aperto due studi di fisioterapia, il primo nel 1994 a Pescara e il secondo nel 1999 a Chieti, che tutt’oggi continuo a gestire.
La mia avventura a Chieti però non terminò definitivamente, in quanto nella stagione 1996-97 tornai come allenatore in seconda a fianco di Ettore Donati. Ricordo che fui contattato da Gabriele Morganti, mio ex compagno di squadra e direttore sportivo di quel Chieti, che aveva bisogno di una figura esperta da affiancare a Donati per gestire una squadra molto giovane, con i vari Tamburini, Gennari e Bertarelli.
La Dayco, all’epoca sponsor del Chieti, ci organizzò 15 giorni di ritiro in Svezia.
Fu una bellissima annata; Donati era una grande persona, toscano fino al midollo, con tutte le accezioni positive e negative dei toscani. Ricordo ad esempio che in trasferta a Casal di Principe contro l’Albanova disse a me e Gabriele “Oggi andate voi in panchina, sennò io qui faccio un casino” Seguì la partita dal pullman, noi vincemmo 2-1 ma prendemmo tante di quelle botte fuori e dentro il campo. Ricordo un “inserviente” della società di casa piazzato dietro la nostra porta con la pistola sotto la giacca…

Il suo rapporto con la dirigenza neroverde dell’epoca
Cosa dire…Anni irripetibili. Si viveva sereni, in armonia tra dirigenza, staff tecnico e calciatori. Giocatori come Pallanch e Baglieri, abituati a percepire stipendi molto alti in piazze di categoria superiore, accettavano di buon grado di venire a Chieti; anche se significava percepire qualcosa in meno, i soldi erano sicuri.
Era una società ambita, funzionava tutto alla perfezione. Ne conservo un ricordo splendido, nemmeno gli ultimi anni di grandi difficoltà economiche l’hanno potuto infangare.


Tra le sue esperienze successive mi ha molto colpito quella di Pineto nella stagione 98-99 in promozione in cui ha ricoperto contemporaneamente i ruoli di allenatore, direttore sportivo e presidente. Che esperienza è stata?
A dirla tutta facevo anche il magazziniere e responsabile del settore giovanile. Sono stato tre anni a Pineto. Nel corso della stagione alla quale tu fai riferimento la società mi lasciò tutto in mano dicendomi “vendi quello che riesci e con quanto ricavi cerca di fare una squadra”
Tra mille difficoltà riuscimmo ad arrivare quarti in campionato, e l’esperienza mi fece capire cosa significa essere imprenditore a 360 gradi.


Nella sua esperienza di coordinatore della scuola calcio del Pescara e nella progettazione e realizzazione del “Progetto calciomeeting”, ha avuto modo di collaborare e conoscere molto bene Gabriele Aielli, attuale allenatore del Chieti FC.
Il suo parere su di lui… Quanta strada potrà fare secondo lei in questo nuovo progetto?

Sicuramente posso dire che è su una buona strada. Ha una società forte alle spalle, roba non da poco in una categoria come la promozione, che ha intenzioni serie e forti potenzialità economiche.
In questo campionato i giovani fanno la differenza, schierare “under” all’altezza è fondamentale. Grazie alle sue molteplici esperienze Gabriele ne ha incontrati tantissimi e ha potuto scegliere con dovizia di conoscenza. Quando andavamo in giro con lui e Cetteo Di Mascio (allenatore della primavera ndr) per i vari centri giovanili che seguivamo, Gabriele si occupava delle slides  per l’analisi tecnico tattica e lo faceva con grande passione e preparazione.
Dopo aver abbandonato la rappresentativa regionale giovanile si è preso una pausa per seguire in prima persona le sue attività extracalcistiche, ma quella di Chieti era una opportunità impossibile da rifiutare. L’ho incontrato qualche giorno fa, l’ho trovato molto felice: mi ha confessato che vedere 700 persone allo stadio è stata per lui una gioia immensa. Sente il peso della responsabilità di dover vincere per forza (d’altronde è quello che tutti si aspettano) ma ha idee chiare e spalle larghe per sopportare la pressione. Si sta creando un grande entusiasmo intorno al Chieti FC: al tifoso e allo sportivo in generale interessa poco la categoria, vuole semplicemente andare allo stadio, vedere una bella partita di calcio e vincere. Oggi purtroppo il Chieti SSD tutto questo non lo può offrire.

 

Di cosa si occupa oggi? Ha ancora parte attiva nel mondo del calcio?
Come detto prima continuo a gestire i miei studi di fisioterapia. Sono uscito dal mondo del calcio quando è stato mandato via Cetteo Di Mascio dalle giovanili del Pescara. La nuova società ha una mentalità differente da quella passata; sembra che non interessi investire sui giovani e che non abbiano tempo di veder crescere i ragazzi.
Faccio un esempio; noi scovammo Marco Verratti ad undici anni pagandolo qualche migliaia di euro ed il suo trasferimento al Paris Saint Germain ha fruttato alla società ben 13 milioni. Nel calcio moderno se un Verratti non lo scovi da piccolissimo ma lo fai a 14-15 anni, diventa appetibile solo per società come Juve, Milan o Inter che hanno la possibilità di investire grandi capitali.
Il mio ruolo di responsabile delle attività di base dai 6 ai 13 anni era diventato superfluo. Non potevo snaturare il mio modo di lavorare; oggi il mondo del calcio è dominato da genitori che pagano per far giocare i propri figli o da “sponsor” potenti che cercano di forzare l’impiego in campo di taluni ragazzi a discapito di altri. Bisogna andare in Croazia o in Svezia a cercare fenomeni, e questo modus operandi non mi appartiene.
Mi sono quindi defilato, oggi il mondo del calcio non fa più per me. Da appassionato seguo le partite in tv, magari qualche volta verrò all’Angelini  a vedere all’opera i ragazzi di Gabriele.

Grazie della chiacchierata sig. Di Lello. In bocca al lupo per la sua attività imprenditoriali.
Grazie a voi ragazzi, è stato un piacere.

 

 

 

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