TifoChieti ha contattato per tutti i suoi lettori Claudio Berlanda, cuore e grinta neroverde a cavallo tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi degli ‘80.
Buongiorno Claudio è un piacere fare quattro chiacchiere con te.
Dopo esser nato il 7 agosto 1954 a Cavedine (TN) nella incantevole “Valle dei Laghi”, quanta determinazione ti ci è voluta per abbandonare un paesino di tremila anime e diventare calciatore?
A dire la verità sono arrivato tardi sui campi di calcio, da ragazzino facevo atletica leggera e mi piaceva molto. Ho iniziato quasi per caso a giocare a pallone in una formazione dilettantistica della zona e fino ai 18 anni sono rimasto lì, poi è arrivata la proposta del Brescia che non ho potuto rifiutare.
Il tuo esordio nel calcio che conta risale al 6 gennaio 1974 in serie B allo stadio Sinigaglia di Como indossando la gloriosa maglia dalla “V” bianca. Subentrasti al primo minuto del secondo tempo a Botti e anche se il risultato finale non sorrise alle rondinelle fu una giornata certamente da ricordare.
Puoi immaginare cos’è stato per me in soli sei mesi passare dalla prima categoria trentina a giocare in serie B, credo che pochi calciatori possano vantare un balzo così repentino. Ero abituato ad un calcio di un paesino di provincia e mi sono ritrovato quasi fuori dalla realtà ad esordire in uno stadio importante con addosso una maglia importante, ci sono veramente poche parole per descrivere il tutto.
Nei quattro anni nell’antica “Brixia” hai messo insieme circa 60 presenze e hai avuto modo di vivere uno spogliatoio con grandi nomi come Luigi Cagni, Giuliano Fiorini ma soprattutto Evaristo Beccalossi ed Alessandro Altobelli. Avresti mai scommesso sulla carriera futura di Becca e Spillo?
Senza ombra di dubbio! Già a quei tempi si vedeva che Beccalossi aveva un altro passo e che avrebbe spiccato il volo verso grandi piazze. Stessa cosa posso dire di Altobelli con cui eravamo molto amici, per due anni abbiamo condiviso la casa e vissuto i nostri primi amori insieme, pensa che io stesso gli presentai quella che poi è diventata sua moglie.
La serie B dell’epoca era di qualità nettamente superiore a quella attuale: a me è capitato di marcare gente come Paolo Rossi e Agostino Di Bartolomei nel Vicenza, Pietro Paolo Virdis nel Cagliari, Bruno Conti nel Genoa, Pietro Fanna nell’Atalanta. Cominciavano a saltare agli onori della cronaca gente come Cabrini, Tardelli, Wierchwood, calciatori che avrebbero fatto la storia del nostro calcio negli anni 80 e 90, insomma era dura per noi difensori.
Spiegaci le motivazioni che ti hanno portato a scendere di categoria ed approdare al Chieti.
Sinceramente all’inizio non ero molto convinto, non per la destinazione ma perché mi sembrava riduttivo scendere di categoria in quanto mi sentivo in grado di continuare a giocare in cadetteria. Parlai con Giacomo Violini, Giovanni Colzato e Pietro Michesi che fecero prima di me il percorso da Brescia e Chieti e mi convinsero asserendo che c’era una società nuova con grandi ambizioni, la squadra era fortissima e con i soldi investiti avremmo vinto tranquillamente il campionato. Arrivai a Chieti convinto di vincere e tornare subito a giocare in serie B ma purtroppo le cose non andarono così, conosco bene i motivi di quella mancata promozione ma li tengo per me e non li dirò mai a nessuno.
Il primo impatto con l’ambiente Chieti, un’Italia “diversa” rispetto al nord laborioso ed industriale in cui eri abituato a vivere fino ad allora.
Senza dubbio una situazione molto differente, lasciai una città ricca e gli ambienti ricchi della provincia del nord e mi ritrovai in una realtà piccolina, con uno stadio piccolo e un ambiente tutto da scoprire. All’inizio non ero affatto entusiasta della scelta ma mano a mano conoscendo la città, i tifosi, la gente di Chieti mi sono innamorato follemente del posto, provo un affetto talmente forte che ancora oggi mi porto la vostra città dentro il cuore e seguo le sorti della squadra di calcio. L’impatto con la gente fu fantastico, mi hanno voluto bene da subito probabilmente grazie anche al mio modo di giocare tutta grinta e sacrificio.
Un bienno a Chieti da titolare per confermare, semmai ce ne fosse stato bisogno, le tue qualità di terzino sinistro con propensione di fluidificante. Una serie C di altissimo livello con squadre come Livorno, Pisa, Parma, Empoli e chi più ne ha più ne metta. A Chieti in tardi ricordano alcuni incontri “caldi” di quel periodo come il Chieti Livorno 1-0 del gennaio 1979 o il Chieti Pisa 0-0 del 20 maggio dello stesso anno. A quali partite sei più legato?
Ce ne sono diverse, sicuramente quella da te citata contro il Livorno mi è rimasta dentro. Mi feci male gravemente alla testa femorale ma nonostante il dolore rimasi in campo e all’ultimo scatto riuscii a fornire l’assist che Remo Luzi trasformò in rete per il gol vittoria. A fine partita non riuscivo nemmeno a spogliarmi, mi portarono al pronto soccorso e il primario mi disse che se avessi preso un’altra botta in quel punto rischiavo di rimanere sulla sedia a rotelle a vita. Anni dopo ritrovai a Giulianova Gabriele Zottoli che in quella partita giocava con il Livorno e mi raccontò che l’allenatore dei labronici Tarcisio Burgnich gli fece scontare in allenamento quella sconfitta a Chieti. Burgnich aveva preparato la fase difensiva su di me cercando di bloccare le mie avanzate sulla fascia e quando prese gol in quel modo si arrabbiò talmente tanto che prese a pugni la panchina.
Ricordo la sconfitta a Ferrara per 5-1 del 16 ottobre 1977, non solo per il mio gol ma perché in quella partita c’erano enormi aspettative verso di noi. Incontravamo una delle pretendenti alla promozione e tanti tifosi ci seguirono da Chieti, leggere il dispiacere nei loro occhi per la sonante sconfitta a fine partita mi fece veramente male.
Un’altra che non posso dimenticare è il Livorno-Chieti del giugno 1978: perdevamo 2-1 a pochi minuti dal termine ed io feci un intervento poco ortodosso su un giocatore amaranto vicino la panchina della squadra di casa. Il massaggiatore entrò in campo e mi sferrò un pugno in pieno volto facendomi svenire. Scoppiò una rissa pazzesca, io rinvenni dopo qualche attimo attorniato da magliette amaranto che volevano vendicare il loro compagno infortunato. A termine della contesa rimanemmo assediati nello spogliatoio a lungo e dovemmo lasciare lo stadio in taxi. Uscii dagli spogliatoi con la borsa del ghiaccio sulla testa e vidi un taxi già occupato da Salvori e Bertuolo, feci per salirvi quando i tifosi di casa, che mi avevano riconosciuto, mi corsero incontro inferociti e assediarono l’autovettura cominciando a colpire vetri e sportelli. Il tassista impaurito partì a razzo mentre gli stessi miei compagni d squadra mi chiedevano di scendere e mi rimproveravano dicendo che era sempre per colpa mia che scoppiavano i casini in trasferta, una scena indimenticabile. Chiudo il capitolo dei ricordi con la sfida alla Salernitana del 12 novembre 1978 in cui presi una ginocchiata in pieno volto e mi spappolarono il naso. Ricordo di essere corso in panchina perché rischiavo di soffocare con il sangue, mister Ezio Volpi attonito voleva tirarmi fuori subito ma io mi opposi. C’era un ragazzino in panchina di cui non ricordo il nome che svenne dalla paura alla vista di tutto quel sangue.
Dove abitavi in città? Come trascorrevi il tempo libero?
Ah! Furono momenti meravigliosi della mia gioventù: vivevo insieme ad altri miei compagni di squadra in alcuni appartamenti all’inizio di corso Marrucino, avevamo una vecchietta molto gentile che ci curava e ci faceva da mamma. In quel gruppo di tutti scapoli all’epoca con me c’erano Fortunato Torrisi, Giuseppe Brunetti, Antonio Antignani, Mauro Nuti e facevamo un casino da pazzi. Chieti era bellissima nella sua pacatezza e tranquillità, amavo passeggiare per Corso Marrucino e andare in giro per i paesini limitrofi a scoprire nuovi posti. In Abruzzo ho trovato la gente più generosa e brava d’Italia, il popolo abruzzese ha veramente una marcia in più. Ricordo che Torrisi era appassionato di caccia e alcune volte di buon mattino lo accompagnavo nei canneti di Chieti Scalo a caccia di beccaccini e di altri volatili.
La zona era frequentatissima dai cacciatori ma io ero il solito guastafeste e una volta che il silenzio abbracciava tutti i tiratori sparavo in aria cinque o sei colpi in modo da far scappare tutti gli uccelli e permettere loro di non essere catturati. Quando Torrisi scoprì che ero io che gli rompevo le uova nel paniere si arrabbiò come un matto, quasi quasi sparava lui a me!
Sei stato attore protagonista di un evento storico per la Chieti Calcio 1922 e per tutta la città, il trofeo anglo-italiano. Che ricordo hai delle trasferte nella perfida albione a Nuneaton e Sutton?
Fu una bellissima avventura andare in Inghilterra e misurarsi con una realtà calcistica completamente differente dalla nostra. In Italia eravamo attenti anche all’alimentazione, lì i calciatori mangiavano e bevevano a dismisura e correvano ugualmente come matti. Disputammo un torneo alla grande fornendo delle ottime prestazioni, peccato solo per la finale persa.
Effettivamente il Chieti disputò un trofeo brillante tanto da arrivare a giocare la finale in casa il 25 Aprile 1979 davanti a cinquemila spettatori. Come la squadra e la tifoseria si approcciarono a quella partita?
C’era una bella atmosfera in città, si sentiva l’importanza della sfida. I tifosi si aspettavano la vittoria, anche perché eravamo riusciti a sconfiggere a domicilio due settimane prima il Sutton e tutti noi calciatori eravamo molto fiduciosi, purtroppo non ci fu lieto fine. Il trofeo anglo-italiano all’epoca a livello di serie C aveva una grande valenza, vincerlo ci avrebbe dato un buon prestigio internazionale.
Riavvolgendo il nastro di quella sfida persa contro il Sutton persa 2-1, cosa rimproveri a te stesso e alla squadra?
Ad essere sincero non ricordo benissimo come abbiamo giocato, ricordo che fummo sfortunati mancando un paio di occasioni clamorose per pareggiare ed io mi infortunai anche alla caviglia, fu un vero peccato.
Dopo i due anni a Chieti si riaprirono per te di nuovo le porte della serie B, stavolta a Taranto. Non fu però una stagione molto positiva e nella stagione 1980-81 tornasti di nuovo a Chieti, un Chieti appena retrocesso in serie C2.
Quella di Taranto fu una stagione sfortunata, ricordo che in precampionato venni a Chieti per giocare una amichevole e dopo 15 minuti in uno scontro di gioco con Beccaria mi infortunai e dovetti lasciare il terreno di gioco.
Purtroppo i medici fecero un errore madornale ingessandomi la gamba, stetti fermo per diversi mesi e una volta tolto il gesso realizzai che la gamba infortunata aveva perso quasi completamente il tono muscolare, diventando la metà dell’altra.Rientrai così in campo alla fine del girone d’andata e riuscii a mettere insieme soltanto 13 presenze. L’anno successivo tornai a Chieti ma trovai una situazione pessima fuori dal rettangolo verde con una società latitante e poco incline al pagamento degli stipendi.
Un giorno l’allora presidente Franco Mammarella venne negli spogliatoi tutto baldanzoso, noi ci stavamo lamentando perché gli stipendi non arrivavano. Lui si rivolse a mister Dino Panzanato con un tono un po’ da “fighetto” dicendo “Guardi mister come si comportano male i suoi giocatori”. Fu allora che il mister che era dalla nostra parte prese per il collo il presidente e lo cacciò fuori dallo spogliatoio! Panzanato era un grande uomo di esperienza di campo e un allenatore con le palle, fu solo grazie a lui che quella squadra restò unita e riuscì a fare un campionato dignitoso, quello fu un gesto forte che nessun allenatore di oggi avrebbe il coraggio di fare.Dopo l’accaduto il mister fu subito esonerato e al suo posto il presidente cercò di portare in panchina Eugenio Fantini che rifiutò l’incarico. La domenica successiva giocammo in casa e sapevamo che Panzanato avrebbe assistito al match dalla tribuna, non ricordo contro chi disputammo l’incontro ma ricordo che giocammo per il mister asfaltando gli avversari e ad ogni gol andavamo sotto la tribuna per dedicarlo a Dino. Morale della favola Panzanato rimase in panchina sino al termine della stagione.
Dopo Giulianova, Alessandria, Massese, Crotone la tua carriera si chiuse nel 1986 a La Spezia. Pensi che il calcio ti abbia dato le soddisfazioni che meritavi?
Credo mi abbia dato il giusto. Io ho dato tanto, sono sempre uscito dal terreno di gioco con la maglietta sudata e con la coscienza a posto sicuro di aver dato tutto e di non essermi mai tirato indietro. A detta di esperti di calcio, come direttori sportivi o allenatori, forse avrei meritato qualcosa in più, Salvori, mio compagno di squadra e con un passato in serie A, diceva sempre “Come diavolo fa Berlanda a giocare in serie C, è uno dei misteri del calcio”.Io comunque sono contento così, quando esci dal campo e sai di aver dato tutto te stesso al di là del risultato finale non puoi che essere soddisfatto.
Nel corso della tua carriera hai avuto modo di disputare tantissimi derby ma non posso esimermi dal chiederti come si vive il derby lombardo per eccellenza, Brescia-Atalanta.
Brescia-Atalanta era una battaglia pazzesca in campo. Ci si picchiava duramente ma con rispetto e tutto finiva lì sul rettangolo di gioco. Oggi non potrebbe accadere con mille telecamere puntate addosso che ti contanto anche i peli della barba, ma accade molto di peggio fuori dal terreno di gioco. L’ambiente sia a Brescia che a Bergamo era sempre bollente, avevi il pubblico adosso, era bello giocarli.Qualcuno all’epoca aveva definito “derby nel derby” la sfida sulla fascia tra me e Fanna. Pietro sulla fascia era un osso duro, il suo scatto bruciante unito alla forza fisica era tosto da fronteggiare ma posso dire di essere stato sempre ai suoi livelli. Il nostro era un duello spettacolare, pura espressione di forza fisica, velocità e sana competizione, erano delle bellissime battaglie.
Nella tante piazze conosciute, dove pensi di aver vissuto meglio come ambiente e tifoseria?
Nella mia personale classifica metto Brescia al primo posto e Chieti al secondo. Mi sono trovato bene un po' dappertutto, ricordo la bella esperienza di Crotone nella stagione 1983-84 dove vincemmo il campionato, un ambiente infuocato anche se la città non mi piaceva molto. Belle esperienze anche a Giulianova e Massa, forse l’unica un po' spenta come città e tifoseria è stata Alessandria, nonostante la grande tradizione che i grigi si portano dietro.
Dove vivi oggi e di cosa ti occupi?
Sono in pensione e mi godo la vita. Vivo a Lecce dal 1986, la mia ex moglie è salentina e ci conoscemmo proprio a Chieti in quanto lei frequentava l’università in terra teatina. Ci trasferimmo in Salento quando smisi di giocare e non sono venuto più via, qui è un posto magico che mi permette di andare al mare sette mesi l’anno.
Grazie mille Claudio per il tempo che ci hai dedicato!
Grazie a voi, ci tengo a dire che i tifosi del Chieti sono veramente ammirevoli, provo tantissimo affetto nei loro confronti, per me saranno sempre unici. Un abbraccio a tutti.