Ogni volta che mi accingo a scrivere, sono decine gli argomenti che mi rotolano nella testa come piccole viti nel buio, che mi piacerebbe raccogliere, ma che raramente riesco a prendere, più spesso mi capita invece di dare loro un calcio che le porta definitivamente lontani da me. Poi l’oscurità si trasforma in luce nei miei pensieri e il tema mi si offre chiaro di fronte agli occhi. Non si tocca, non si mangia, non si annusa, ma si vede e si ascolta. È la parola. Segni e suoni che regolano gran parte dei nostri rapporti quotidiani, unico mezzo per noi che siano membri di una community, usiamo Facebook, la posta elettronica, curiamo il nostro blog, frequentiamo le chat. La parola scritta, per l’estensione e la natura dei rapporti che abbiamo, sta diventando sempre più importante, ma proprio per questo ciò che scriviamo ci appare meno vincolante. La parola scritta come impegno, come anticipo di un’azione, come garanzia e verifica, come cartina di tornasole della nostra credibilità. Scripta manent, verba volant si diceva una volta, invece oggi anche scripta volant. Perché? Perché di parole ve ne sono troppe in giro, sono per giunta usate male e, soprattutto, senza onestà. 

Ci sono molti esempi che mi vengono in mente. Il primo è l’aggettivo “inaudito” che vuol dire “mai sentito prima”. D’accordo, ma è usato anche in situazioni delle quali abbiamo sentito spesso parlare. Usare questa parola ci fa credere di rafforzare il significato e l’importanza di quello che diciamo, invece alla fine tanti “inauditi” crea tanti “inaudenti”, ovvero tante persone non sono più disposte a credere che quello che stanno per ascoltare è inaudito. Ormai non ci credono più. Viene alla mente la famosa favola di Esopo nella quale un pastore, per fare uno scherzo agli altri pastori che riposavano, urlava “Al lupo, al lupo!” mettendoli in allarme e facendoli correre. Alla fine il lupo arrivò davvero e le sue richieste d’aiuto rimasero inascoltate. Tradendo le parole, alla fine è la realtà ad essere tradita e subire questo smottamento del significato è tutto il nostro linguaggio e, di seguito, ciò che ci unisce. Se non possiamo più credere alle parole, non possiamo credere più a nulla e a nessuno.

Ci ripensavo oggi, mentre passeggiavo con un paio di amici intorno allo stadio “Guido Angelini” e uno di loro mi ricordava quello che il suo parroco era solito dirgli: “Meglio una parole di meno che una parola di più”. E lo diceva mentre eravamo immersi in un paesaggio che era impossibile definire come uno stadio. Quelle reti, quei muretti e quelle protezioni facevano assomigliare il piazzale antistante allo stadio ad uno di quei posti di blocco che ci capita di vedere in tv in zone come la Palestina, il Libano, l’Iraq e l’Afghanistan. Mancavano solo i soldati con le armi in pugno. Sistemi escogitati per evitare attentati bomba, agguati o assalti armati. Un luogo di sport trasformato in un teatro di guerra, come forse era successo prima solo allo stadio di Sarajevo: teatro delle olimpiadi invernali e qualche anno dopo trasformato in cimitero per seppellire i morti della guerra nei Balcani. Anche il termine “prefiltraggio” – usato dalla Lega e dalla Società per definire lo scopo di questo sistema di gabbie che ha trasformato Santa Filomena in Guantanamo – suona assai sinistro. Che cosa vuol dire “prefiltraggio”? Di cosa? Di impurità da eliminare? Se poi qualcuna dovesse scappare, nessuna paura: ci sono 26 telecamere che ci scrutano. Questo una volta si chiamava sport e loro – i signori che il calcio lo governano – vorrebbero che noi chiamassimo tutto questo ancora calcio. In realtà è solo denaro. Non solo quello che gira tra società, giocatori e procuratori, ma quello speso dalla collettività (leggi: Comune di Chieti) per adeguare l’impianto alle norme vigenti. Ergo: questo vale per tutti gli altri stadi della Lega Pro. Ecco un’altra parola tradita: la giustizia.

Ogni legge è vera ed effettiva se viene rispettata, ma abbiamo già visto che le norme sono inflessibili solo a Chieti. L’ultimo esempio sono i biglietti a Celano acquistati senza problemi al botteghino del centro marsicano. È già troppo che i tifosi del Chieti non siano stati arrestati con l’accusa di detenzione abusiva di biglietto e falsa dichiarazione, visto che il rilascio del biglietto è subordinato alla tessera e il rilascio di quest’ultima è a sua volta subordinato al contenuto del casellario penale di chi la richiede. Oramai stiamo sfiorando il parossismo. E se vi state chiedendo cosa significa e la sue desuetudine vi è sospetta, vi segnalo la definizione del Dizionario Treccani:
Parossismo (ant. parosismo e parocismo) s. m. [dal gr. παροξυσμός «irritazione, esasperazione», der. di παροξύνω «eccitare», comp. di παρα- «para-2» e ὀξύς «acuto»]. – fig. a. Esasperazione di un sentimento, di uno stato d’animo, condizione di forte eccitazione: essere nel (o giungere al, o raggiungere il) p. dell’ira, del furore, della passione. Per farla breve: questi, invece di combattere la violenza e la fiducia nelle istituzioni, la stanno distruggendo caricando la molla del malcontento all’inverosimile.

La tessera del tifoso ora ce la propongono con il nome di card “Orgoglio teatino”, in realtà è il nostro certificato di rassegnazione, da presentare nei punti di prefiltraggio prima di alzare le mani per la perquisizione di rito. Allora preferisco tenere le mani in basso e tendere direttamente i polsi: mettetemi le manette perché volevo andare a vedere una partita del Chieti. Sì, portatemi dentro, sui gradoni del nostro stadio trasformato in un carcere di massima sicurezza, dove i secondini si mescolano oramai ai terzini. Roba da quartini.

Mi brucia che tutto questo succeda a Chieti, mi brucia che avere l’unico stadio di Lega Pro a norma non rappresenti un vanto ma un’umiliazione, mi brucia che siano stati bruciati centinaia di migliaia di euro che si potevano spendere in cose ben più utili per la comunità, mi brucia infine che chi governa e il paese e il calcio appaia sempre più lontano dalle nostre parole mentre le loro valgono sempre e comunque. Dette così le cose non hanno una ragione perché non provengono da un ragionamento. Se anche l’Onnipotente ha mandato il figlio per spiegarci le sue leggi, magari a noi tifosi qualcuno dovrebbe spiegare cosa sta succedendo perché le uniche cosa chiare è che chi guadagna sul calcio non deve avere la tessera mentre chi paga sì.

La differenza è nei soldi, è evidente. Prima ci hanno tolto la diretta web e ora le più elementari libertà sancite dalla Costituzione in nome del denaro. Basta pagare e si può fare tutto. Vuoi solo scrivere qualche riga per far sapere a chi sta lontano cosa fa il Chieti? Ci vogliono migliaia di euro. Vuoi entrare allo stadio? Devi pagare per la tessera del tifoso e pagherai ogni volta che farai un biglietto per andare allo stadio solo grazie ad essa. Perché la tessera del tifoso altro non è che una carta di credito e un domani ci convinceranno a usarla per acquistare i biglietti, magari anche per farci la spesa. Ogni meccanismo commerciale, per essere tale, deve essere controllabile nei risultati e, quando si salda al potere che lo stato giustamente rivendica, dà origine a questi mostri di fronte ai quali la paura di paralizza. La paura di non poter più vedere la partita, la paura che, se non abbiamo la tessera, la violenza negli stadi farà altre vittime. La chiamano libertà invece non lo è: perché se non ci uniformiamo dobbiamo rimanere a casa e trovarci altro da fare. Voi ditemi se questa può chiamarci libertà… . In realtà siamo schedati, come sono schedati tutti gli operatori dell’informazione, me compreso.

Sì, ma che fa? Qual è la differenza? In fondo non abbiamo nulla da nascondere! La logica è che chi fa informazione, usando le parole, è un potenziale pericolo, così come lo è il tifoso. E allora li schediamo tutti! Sulle schede dei giornalisti esistono frasi come “stile di vita apparentemente normale”. L’uso di “apparentemente” implica che chi si controlla suppone, in ogni caso, che tutti abbiamo qualcosa da nascondere e può essere scoperto, magari anche creato ad arte. Il modo in cui la lotta politica è condotta in questi tempi lo dimostra. L’uso delle parole è fondamentale e le mani nelle quali capitano lo è ancora di più perché sono come coltelli: ci si può preparare il miglior pranzo per la persona che amiamo di più o farne delle armi mortali. Le parole sono come i vestiti: ve ne sono alcune da lavoro, altre da festa, altre ancora per fare attività fisica, altre per dormire e altre ancora per fingere quello che non si è. Il loro significato e la loro integrità dipendono dal modo in cui le usiamo.

Non possiamo metterci i pantaloncini e le ciabatte per andare in fabbrica, la giacca e la cravatte non possono fare da pigiama, la maschera di carnevale non può fare da abito da sera. Per questo fateci il favore di non chiamare tessera una scheda, libertà in controllo, prigione uno stadio, il calcio uno sport, lo spettacolo televisivo una partita di pallone. Lasciateci queste parole e i nostri ricordi e lasciateci decidere, ma lasciate stare in pace quelle parole che una volta ci piaceva pronunciare, quasi ne sentivamo il sapore sul palato. Lasciate che quelle cose, che oramai appartengono ai ricordi, abbiano ancora un significato, un valore perché vogliamo pensare di spenderle per le nostre emozioni e non per i vostri affari o la paura che qualche scaramuccia vi macchi lo schermo delle vostre telecamere. L’inflazione riguardi il denaro, non le parole che parlano della nostra passione.

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