«A Ste’, te vonno!» Un minuto ed esce dagli spogliatoi. Faceva a fette le difese, ma il suo aspetto non è più affilato come una volta, lo sguardo invece è sempre quello tagliente, con occhi chiari che appaiono di tanto in tanto da quelle fessure brillando ogni volta che si  tratta di pronunciare le parole “Chieti” e “neroverde”. Nella nostra storia c’è un solo Stefano, il suo ricordo è imponente come il suo fisico e, per sua fortuna, è diventato santo attraverso il martirio degli avversari. Ora le sue “vittime” sono i tesserati del “Città di Monterotondo”, squadra che milita nel campionati di Eccellenza laziale di cui è allenatore. Mi saluta cordialmente: «Considero tutti i tifosi neroverdi miei amici con i quali ho ancora adesso un colloquio virtuale continuo e ogni domenica, appena posso, scappo a Chieti».

Lo avrai raccontato tante volte, ma dicci come sei arrivato a Chieti.

Mi volle Feliciano Orazi che mi vide giocare in Coppa Italia a Giulianova. La Roma mi aveva mandato a farmi le ossa nel Barletta e in campionato non trovavo spazio come titolare. Orazi mi vide e si mise in testa di portarmi a Chieti per l’anno successivo. La squadra era prima in classifica con ampio margine sul Lanciano, ma poi successe quello che tutti sanno allo spareggio di Latina e non se ne fece nulla perché allora la Roma non mandava i suoi ragazzi tra i dilettanti. L’anno successivo rimasi dunque a Barletta, ma per me ci fu ancora la panchina e anche un infortunio, quindi a ottobre chiesi alla Roma di essere trasferito. Il Chieti si era rifatto sotto e io, che allora ero militare, avevo voglia di giocare. Non mi importava della categoria. L’incontro con Mancaniello e Garzelli poi fu stupefacente: mi parlarono dei loro programmi e in 5 minuti trovammo l’accordo.

E una volta in Città che cosa hai trovato?

Ho trovato uno spogliatoio di pazzi (ride), fatto di gente vera, ma anche forte tecnicamente. Genovasi, Fiaschi, Valà, Ilari, Mattioli… mancava solo un finalizzatore. Debuttai contro il Val Di Sangro, infilai quella famosa doppietta e mi mangiai tanti altri gol. Così fu amore a prima vista e nacque quell’empatia che deve esserci tra un giocatore, il suo popolo e la Città.

Sei stato anche in altre piazze, ma a Chieti hai trovato il tuo posto. Perché?

Quello che dici è vero. Sono stato nel Barletta che andò in Serie B, a Macerata abbiamo perso la finale playoff contro il Livorno, a Fano lo spareggio per andare in C1 contro il Castel Di Sangro. Ma nella vita di un giocatore c’è una maglia che indossi e te la porti poi dietro anche se ne indossi altre e per me quella maglia è neroverde. A me poi è sempre piaciuto sentirmi tifoso e in campo mi sono sempre immedesimato nei tifosi e nei loro desideri: un giocatore che lottasse con ardore, passione e forza anche a discapito della tecnica, ma che uscisse sempre a testa alta dal campo dopo aver gettato l’ultima goccia di sudore. Ci sono stati ovviamente momenti meno brillanti, fa parte dell’amore più vero e profondo, però c’è sempre stato rispetto verso la maglia.

Eppure tu, tifoso della Lazio, hai avuto la strana avventura di vestire la maglia della Roma. Questa cosa sembra un po’ in contrasto con quello che hai detto…

La Lazio degli anni ’80, dopo aver vissuto il bellissimo ciclo di Maestrelli, era allo sbando senza contare lo scandalo del calcio scommesse. Nell’82 poi mi misero alla porta. Quale dispetto più grande potevo fare se non vestire la maglia nemica? La Roma invece stava vivendo momenti splendidi e in quegli anni vinsi con loro sia il campionato Primavera sia quello Allievi.

Come si impara ad essere un giocatore e quando hai capito che potevi esserlo?

Tutti i bambini crescono con la voglia di diventare calciatore di Serie A. Ho speso la mia carriera tra i campi di Serie C e penso che avrei potuto fare la B, allora però un calciatore non era padrone del proprio destino. All’epoca si interessarono a me Pescara e Messina, ma la Serie B l’avrei voluta fare in una squadra che neppure nomino (ridacchia) e alla quale auguro di raggiungerla. Però sono contento di quello che ho fatto e di aver vestito la maglia neroverde.

Quali giocatori forti hai incontrato durante la tua carriera?

I nomi più facili sono Enrico Chiesa e Fabio Grosso che poi hanno fatto quello che tutti sanno. Tra quelli non neroverdi ricordo Vincenzo Lanotte, che ha giocato alcuni anni anche a L’Aquila, e De Florio, mio compagno di attacco a Barletta.

E come attaccante, con quale giocatore ti sei trovato meglio?

Per me è stato molto importante Fabio Fiaschi, con le sue accelerazioni sulla fascia: i suoi cross erano per me invitanti cioccolatini. Negli anni a seguire la vicinanza di gente come Pagliari, Presicci, Pallanch era sempre motivo di concentrazione: sapevi che da loro poteva sempre nascere la giocata vincente e mi hanno aiutato a gonfiare la rete con frequenza.

Chi era il tuo idolo quando imparavi a fare il calciatore?

Da tifoso guardavo a Giordano, ma da giocatore il mio idolo era Pruzzo per il tempismo, le acrobazie e soprattutto il colpo di testa. Da lui ho imparato saltare 2 o 3 secondi prima e a rimanere in aria sulle spalle del difensore per colpire la palla. Ho avuto la fortuna di allenarmi con lui che per me era l’università del calcio, ma anche con Bruno Conti, Falcao, Graziani… c’erano poi il giovane Giannini e Corrado Baglieri.

Avversari: i difensori più forti che hai fronteggiato?

Ce ne sono stati parecchi. Mi ricordo un giovanissimo Delli Carri a Bisceglie. Fortunatamente per me i migliori difensori li avevo in squadra e quindi dico Peppe De Amicis e Gabriele Consorti.

In che cosa ti piace o non ti piace il calcio di adesso?

Il calcio di adesso non mi piace perché un giocatore dopo una o due partite viene osannato e idolatrato. L’esempio più lampante è secondo me Balotelli, un buon giocatore, ma nulla di più: ha ragione Boban nel dire che nel Milan di 20 anni fa avrebbe pulito gli scarpini ai vari Gullit, Rijkard e Van Basten. I giovani poi giocano per la loro età invece dovrebbero giocare perché valgono.

Che cosa ci vuole oggi per essere un giocatore?

Capacità tecnica prima di tutto, ma non solo. Io ho avuto la fortuna di vivere Chieti a 360 gradi: noi vivevamo e mangiavamo in mezzo alla gente, c’era un contatto continuo con il tifoso, non solo la domenica. Se io andavo verso la curva, li vedevo tutti in faccia e li riconoscevo uno per uno. Oggi troppe regole, troppi daspo, troppi divieti. Il calcio non è andare a teatro: è bello perché c’è lo sfottò. Quando andavamo a giocare i nostri derby a Lanciano o a Francavilla avrebbero dovuto squalificare lo stadio intero per quello che usciva dalla bocca dei tifosi avversari. Ma a me sembrava giusto. Anzi io traevo forza dai loro cori e c’era il gusto di andarli a sfottere dopo un gol o una vittoria. Manca questa genuinità e le troppe regole imposte hanno tolto alla gente l’amore di andare allo stadio.

Da allenatore: per fare l’attaccante che cosa serve?

L’attaccante quello vero deve essere un misto di tante qualità: tempismo, forza, tecnica, altruismo…

Altruismo? Strano per un attaccante…

Sì, altruismo perché per me è stato sempre importante il gruppo e far parte di un’entità. Ci sono ovviamente individualità in grado di esaltare il gruppo però anche il campione deve mettersi a  disposizione del gruppo. Le nostre non erano squadre, ma veri e propri clan. Noi eravamo un banda di persone che si muovevano sempre insieme, sia nella vita sociale che nella vita calcistica all’unisono. Anche la squadra che vince il campionato di Interregionale era così: se si usciva a cena non era una persona a muoversi, erano tutti. Era un cerchio chiuso: guai a chi ci toccava, guai a chi provava a mettere un tacchetto sulla gamba di un nostro compagno.

Il tuo gol più bello e quello più importante.

Con la maglia neroverde ce ne sono stati 2 o 3. Il primo tra i professionisti a Bisceglie: dall’angolo destro con tiro a incrociare che si insaccò sul palo opposto sotto l’incrocio. Quello a cui sono più legato è forse il primo a Val Di Sangro, che fece nascere un amore. C’è poi l’ultimo segnato con il Chieti nello spareggio Chieti-Casarano. Il mio sogno era rimanere e chiudere a Chieti la mia carriera, ma l’allenatore di allora Bruno Pace, fece altre valutazioni. Ci furono anche contatti nell’anno in cui il Chieti vinse il campionato con Gabriele Morganti, ma con il presidente Buccilli ci eravamo lasciati in modo burrascoso e non se ne fece nulla.

E gli allenatori?

Sicuramente Ezio Volpi, un grande uomo che ci ha dato tanto a livello tecnico ed umano, portandoci a vivere il calcio con passione e ad essere uomini in mezzo al campo. Altro allenatore che ricordo con molto piacere per 2 anni a Fano e che poi ha anche allenato a Chieti con ottimi risultati è Ettore Donati. Anche lui grande cultore del lavoro e amante dei giovani. E poi ringrazio anche Feliciano Orazi che mi ha voluto fortemente e mi ha portato a Chieti.

Hai trovato invece persone che ti hanno messo i bastoni tra le ruote costringendoti a sgomitare?

Beh, io ho sempre dovuto sgomitare perché la mia classe non era pura e cristallina quindi ho avuto allenatori che all’inizio non mi vedevano, uno era proprio Ezio Volpi, ma alla fine i miei modi, le mia capacità di finalizzatore e il mio spirito di sacrificio per la squadra li hanno sempre portati a cambiare il loro giudizio negativo quantomeno in stima.

Una cosa che gli allenatori ti hanno insegnato e che tu da allenatore insegni ai tuoi ragazzi.

Il rispetto dei ruoli. Ci può essere anche uno scontro feroce tra due punti di vista diversi, ma il bene deve essere uno e sacro: il gruppo e la squadra.

La Curva del Chieti.

È la cosa più bella che il calcio mi ha dato. È amore, odio, passione… c’è stato tutto e proprio per questo forse è per me la cosa più bella. È l’amicizia che mi lega a Chieti ed è per questo che si parla ancora di Stefano Sgherri dopo 20 anni: la passione che ci unisce, l’amore per i colori neroverdi e soprattutto per una Città verso la quale ho anche avuto rigetto per motivi personali. Mi riferisco al mio matrimonio. Per fortuna il tempo affievolisce i rancori.

Il tempo passa, ma tu qualche volta ti risenti i cori nella testa?

“Sgherri-gol” oppure “Ste-ste-stefano”… Ad Aprilia (per la semifinale di ritorno dei playoff, stagione 2011-2012, ndr) l’ho sentito cantare anche a ragazzi che non mi hanno mai visto giocare. La soddisfazione di essere calciatore è anche questa: io ho un popolo dietro di me al quale sono grato e devo dare il massimo del rispetto. Il bello del popolo neroverde è proprio questo: ha una tradizione, coltiva il proprio passato e ne va fiero. Ecco perché vestire la maglia del Chieti è qualcosa di importante.

Quante volte l’esperienza forte da calciatore ti ha aiutato come uomo?

Diciamo che fare il calciatore ti porta fuori dalla vita reale perché fin da giovane guadagni. A 18 anni sono partito da Roma e, mentre molti miei coetanei non poteva permettersi nulla, quando tornavo io avevo una macchina per poter andare a cena fuori con i miei amici. A volte, se non ha la testa giusta, questo può portarti lontano dalla realtà. Per arrivare devi avere una testa che va al mille per cento. Io personalmente ho vissuto i primi anni della mia carriera da calciatore, pensando più a divertirmi e commettendo tante ingenuità, però poi negli ultimi anni entrava in campo più l’uomo che il calciatore.

E da allenatore?

Non ho mai nascosto il mio desiderio: allenare il Chieti.

Condividi
Pin It